Gucci, la modella e l’armatore armeno.

Forse lei un giorno si è svegliata, è andata dal padre armatore armeno e ha detto papà voglio fare la modella.
Il padre: ma amore ma no vedi bene è una vita sacrificata e tu non sei propriamente un sogno di ragazza.
Lei: io voglio fare la modella.

Passa il tempo e ai casting neanche la fanno entrare, allora va dal padre e dice: papà quanto costa la baracca di Gucci? Perchè o mi fanno fare la modella o me la compro.

Il padre, non potendo accettare un simile smacco, che cioè la figlia fosse rifiutata, va da Gucci tutto tempestato di gemme e pietre preziose e gli dice: we bello (proprio così ma in armeno) ma quanto costa la baracca?
Gucci si offende ovviamente, ma non al punto da rifiutare un trono armeno in oro zecchino del 533 a.c. in cambio della sfilata della figlia.

Quindi la figlia sale in passerella e come se fosse davvero il lavoro della vita, sfila come una principessa armena, fiera del suo singolare ma fighissimo aspetto.

Da quel giorno tutti a criticare quella modella, e poi a pensare ma guarda Gucci che avanguardia, che smart marketing, che attenzione alla proiezione di un modello di bellezza diverso.
E invece no, era solo che lei voleva fare la modella.

E questa storia, ovviamente immaginata, ci insegna che bisogna inseguire i propri sogni, come nelle migliori tradizioni Disney, ma anche che basta chirurghi estetici, la bellezza è innanzitutto essere se stessi.

I Can’t breathe

Non posso respirare. I CAN’T BREATHE. Detto con voce sempre più implorante e con sempre meno fiato. Passo in rassegna le parole di George Floyd poco prima di morire: PLEASE I CAN’T BREATHE.

In bicicletta nella mia tranquilla Milano, che il Coronavirus ha reso reattiva e intraprendente, folle e vitale, la Milano che attende Conte e Casalino davanti alla TV, ridottasi ad aspettare il loro benestare per riprendere a vivere, penso a Trump. Ripenso a Conte. Penso a Kennedy. Penso ad Andreotti. Poi penso a Lincoln e poi penso a quel tipo coreano, Kim.

Pedalo fortissimo, incrocio al parco famiglie, bambini, barboni, chissà se qui all’improvviso si mettessero tutti a protestare. Scommetto che il 30% di chi è qui neanche legge il Giornale.

Faccio un esercizio, penso: Dani immagina qualcuno che odi, ma tanto. E lì già entro in difficoltà evidente. Io non odio nessuno davvero. Qualcuno mi sta sulle palle ok, ma ODIARE NO.

Però si dà il caso che per fare quell’esercizio devi odiare qualcuno. Ok, proviamoci. Quella signora ignorante che ha detto quelle cose e ha fatto quelle cose e in qualche modo ha contribuito a distruggere quel tuo sogno. Si ma non la odio. Però facciamo finta. Che ce l’hai sotto mano. Ha fatto un errore, la puoi tenere a terra e toglierle il respiro. In un attimo di follia puoi pensare: stronza te lo meriti.

Poi lei dice : NON RESPIRO. E tu non puoi non pensare che cazzo sto facendo lei ce l’ha il diritto di respirare. Io non sono Dio e non posso toglierglielo.

Che esempio stupido che ho fatto.

Vabbeh questo poliziotto si alza una mattina, forse si lava forse no, forse dà un bacio alla moglie che lo lascerà a breve o forse no, forse ha dei debiti o forse no, questo poliziotto si alza e decide oggi ODIERÒ benissimo. Odierò così bene che la mia anima ne trarrà giovamento mentre con le mani in tasca, mostrerò la mia superiorità.

NON POSSO RESPIRARE. Detto due, tre, quattro, dieci volte. E tu non ti muovi di un millimetro?

Che etica distopica, ma che dico etica, che mancanza di fibra nervosa, che totale assenza di atrio e ventricolo, che buco di lunghi minuti di ossigeno al cervello. Si, deve essere andata così: i neuroni atrofici hanno smesso di lavorare. Che c’entra l’uomo bianco contro l’uomo nero. Anche se lo odi. Anche se sei cresciuto arrabbiato. Uno ti dice non respiro. E tu gli dai aria, non gliela togli.

Qualcosa in quella testa non ha funzionato.

Troppo facile, direte. È che l’altra ipotesi, io non ce la faccio a concepirla. Mi fa troppo male.

Il senno di poi

Potevi o non potevi crederci.

La pancia. Le viscere. I sensi. Una direzione netta e conclusiva: dovevi crederci.

Potevi o non potevi crederci.

La testa. Il ragionamento. L’analisi. Una conclusione netta: non dovevi crederci.

Ma questo è senno di poi e col senno di poi vengono buone solo le cose preconfezionate: dolci, pizze surgelate, gelati. Cose fatte con macchine e stampi e processi rodati.

E quindi ci credetti e non ci credetti, insieme. Nella stessa misura, con la stessa scissione di organi e nervi. Con la stessa tensione di muscoli, con la stessa pressione nel petto, con respiri affannati e sangue che affluiva e defluiva senza sapere più a chi obbedire.

Durò il tempo che durò per dar ragione alla logica.

Dura ancora, a dar retta al cuore.

Chi ha detto che era facile?

Ognuno nasce con la sua quota di destino difficile, un certo ammontare di notti insonni, una serie di cazzi da gestire più o meno semplici, le sue speranze e i suoi sogni infranti e sogni nuovi all’orizzonte, le occasioni perse e quelle da cogliere.

Ognuno nasce con un destino che non è scritto, con un percorso da costruire che non è solo o per forza quello che ci eravamo immaginati ma può essere anche meglio.

Certo può essere peggio e a volte lo è, ma cazzo dipende da noi, dal nostro modo di guardare alle cose, dalla fiducia in noi stessi prima di tutto, dalla reattività alle situazioni, da quello che sappiamo dare, da quello che sappiamo prendere, da cosa ne facciamo.

Cazzo ma è difficile!

Certo. Chi ha detto che era facile?

Ci volevi tu

Ci volevi tu e una buona dose di endorfine, una leggerezza sensata, tu che entri perfettamente in ogni cornice, un cerchio che non voglio quadrare.

Ci volevi tu a far passare il tremolio al mio occhio sinistro, la fame, la pigrizia, il sonno, la rabbia, il cinismo.

Ci volevi tu a farmi capire che si può essere perfetti senza essere nulla più che quello che si è.

Nulla più che te stesso,

Fanculo

Fanculo a chi si lamenta senza far nulla per cambiare, a chi non ha il coraggio di mettersi in gioco, di dire la verità, a chi si nasconde dietro una scusa, a chi racconta a sè prima che agli altri, a chi ama a comando, a chi non sa guardare oltre il suo naso, a chi non punta perché almeno così non perde, questo non è un inno alla debolezza, mi spiace.

Non sono per le favole.

Non mi sono mai sentita Penelope, pur essendolo stata mio malgrado.

Il vantaggio è che so esserlo, la scelta consapevole è che non lo sono.

E quindi niente tele da tessere, attesa spasmodica, ansia da prestazione di un personaggio altro da me.

L’ho tessuta la tela, l’ho sfilata aspettando un’ispirazione da favola disneyana, ma un mito è un mito e le favole sono belle per imparare che puoi sconfiggere il cattivo, non per restare imprigionata in un’immagine.

Dunque lascio la tela a chi la tesse senza pretese altre, resto quella che si prende il lusso di distruggere tutto e cominciare un quadro e lasciarlo da parte se dopo un pò non avrà più i miei colori.

E non c’è bisogno di approvazione. Possiamo condividere oggi il gusto, domani è davvero un altro giorno.

L’umanità, il vizio che preferisco

Salgo sul tram come ogni mattina, poco prima di una persona piuttosto anziana, ma neanche troppo.

Invito l’uomo ad occupare il posto che avevo preso io, rifiuta sorridendo, con un gesto goffo mi fa cadere il telefono, ci pieghiamo entrambi a prenderlo, mi dice: “non ci emozionamo”.

“Lei è una persona educata”, continua, “non ne vede tante”. Capisce che non sono del Nord, dall’espressione e dai colori. Parliamo della gente quella bella e della gente quella brutta. Lui ha a che fare un pò con tutti, viaggia tanto, è architetto e perito assicurativo, sapete edilizia e bla bla bla.

Capisco che non sta facendo il brillantone come certi similberlusca, è sinceramente curioso. Mi chiede che lavoro faccio, glielo dico mi risponde: ah quindi si fa le flebo. Provo a riconsiderare il mio lavoro mentre mi racconta che uno dei suoi figli è architetto e aiuta le persone disabili progettando soluzioni ad hoc. Improvvisamente il mio lavoro non mi sembra più tanto figo

Mi saluta dicendo: “Io scendo, ma se mi permette vorrei salutarla con un bacio in fronte”.

Glielo permetto.

Poi mi scendono le lacrime.

Era un pò che non mi concedevo di piangere. La mia palpebra sinistra da qualche giorno ha i suoi movimenti impercettibili e involontari, ma piangere no.

Il muscolo che si ribella, L’umanità che è più forte.

Facciamolo, vah

L’anno scorso, in questi giorni più o meno, piangevo tutte le mie lacrime, in silenzio e a bocca asciutta. Perchè così io piango.

Faceva caldo? Certo 

Ricordo altro? Tutto, persino un vestitino color senape che mi scivolava addosso. Io ripiegata sulla mia sediolina gialla. Giallo e senape, non si possono guardare insieme. Ma tant’è, almeno non ero in nero. Non avrei sopportato una scena tanto tragica in nero, sarebbe stato un clichè poco degno di me.

Non avevo neanche sete, a tal punto era il deserto. Una sorta di premorte, nessun drago da Trono di Spade da scambiare con un anello.

La immaginavo una bella estate, avevo tutto, non avevo niente, ognuno si sbracciava a dire la sua a gesti e a parole. Poca voce, tanto rumore, un caldo medio.

Ora è così bello questo silenzio di piedi nudi sul legno. E piove ed è Luglio e non mi sembra vero, di aver perso tanto e aver trovato me.